di Marco Lofino
Take 69 di Hurt, o meglio conosciuta come XX rated version, o Priscilla version.
Può sembrare un linguaggio cifrato, incomprensibile a molti che non sono così esperti e navigati nell’ambito della produzione discografica di Elvis.
Eppure è uno dei tanti aspetti che caratterizzano l’incredibile mole di lavoro svolta in studio dal cantante nell’arco della sua carriera. Come disse qualcuno anni orsono, Elvis era indubbiamente un vero e proprio artigiano del disco, cesellava i propri pezzi in studio take dopo take, fino a raggiungere il risultato voluto.
Se diamo un occhio al libro di Joe Tunzi, “The Sessions”, un vero e proprio vademecum elvisiano per chi vuole sapere proprio tutto su quanto prodotto dal cantante nel corso della sua ultraventennale carriera, non si può non rimanere impressionati dalla quantità (dalla qualità lo si è a prescindere ascoltando anche solo per trenta secondi la sua voce in una qualsiasi interpretazione) del materiale presente negli archivi della BMG, sia a livello di registrazioni in studio sia a livello di nastri registrati dal vivo.
Oggi come oggi molta di questa produzione è stata pubblicata su disco grazie alla FTD. Ascoltando qua e la anche solo parte di questo materiale, emergono alcune interessanti indicazioni:
Elvis era indubbiamente un perfezionista. Anche quando una take pareva perfetta, era solito chiedere a Felton Jarvis “can we add another one?” (trad: Possiamo aggiungerne una’” Difficile, se non impossibile, che completasse un brano con una sola take. Di mia memoria, ricordo “I can Help” dell’album Elvis Today, e poche altre eccezioni.
Ben piu frequenti invece le occasioni in cui invece prima di raggiungere l’esito prefissato, Elvis si cimentasse in svariati tentativi, alcuni dei quali magari inutili, ma non per un super professionista-perfezionis
In qualche caso, ma anche esso con frequenza non molto assidua, parti di due takes venivato unite per creare una take unica. Un lavoro di “cucitura” musicale qualche volta necessario per unire dei passaggi musicali che altrimenti sarebbero rimasti persi. In termine tecnico, Joe Tunzi ricorda che si tratta di una take “spliced”.
Particolare poi è il modo in cui questi nastri venivano conservati, e le note presenti a tutela di essi, spesso scritte in corsivo, utilizzate non solo per indicare di quale brano,nonché take, fosse, ma anche per evidenziare alcune caratteristiche tecniche, vedi il fruscio ( “high hiss”), una parte solo appena accennata o provata ( “work part”) o addirittura, vedi il caso del nastro dello show dal vivo di Omaha (per intenerci il primo dei due registrati per lo special Elvis In Concert del 1977), in cui Felton Jarvis evidenzia una in una nota “bad sound”, la scadente qualità audio della registrazione.
Si potrebbe andare avanti per ore a parlare di tutte queste nozioni, magari un po’ noiosette per chi non è così ferrato sul pezzo, ma di sicuro utili per tutti coloro che come il sottoscritto sono curiosi di saperne di più su come Elvis producesse la sua musica e di come essa è stata conservata nel tempo.
Aspetti meno inerenti alla parte musicale, ma più legati all’uomo Elvis, al suo essere comunque un essere umano come tutti gli altri, riguardano i dialoghi in studio coi musicisti, i commenti, gli scherzi, ed anche perché no le parolacce fra una take e l’altra, ed a volte addirittura durante l’esecuzione di un brano… Ma tutto questo è un’altra storia su cui magari soffermarsi in un’altra occasione…