Ciao amici,
oggi vi propongo un viaggio della durata di 4’15”. Sarà quindi un viaggio breve ma vi assicuro molto intenso, forse come non mai, un’emozione straordinaria che solo chi ama Elvis può interiorizzare, assorbire
ed incastonare dentro il proprio cuore istante dopo istante.
Aloha From Hawaii. Ne abbiamo parlato tante volte. Tutti più o meno sappiamo di cosa si tratti. Il grande spettacolo in mondovisione, Elvis Presley è forse al massimo della sua carriera. E’ il 14 gennaio del 1973.
Di quello show, sostanzialmente un evento televisivo e mediatico senza precedenti anche per l’epoca, ci sono tanti momenti straordinari. Elvis sarà pure stato nervoso e “trattenuto” come alcuni dicono, ma mio Dio, canta divinamente e ci regala delle carezze al cuore indelebili, penso a “Welcome To My World”, “What Now My Love”, “My Way”.
Come scrissi in un articolo di recente, qualcosa per tutti. Forse non sarà
ricordato come il miglior concerto di Elvis in assoluto, di sicuro è quello più iconografico, solenne che sancisce la piena regalità dell’artista Presley in tutto il mondo.
Ebbene, fra quelli appena citati e tanti altri, credo che il picco irraggiungibile di questo concerto sia l’inavvicinabile interpretazione di American Trilogy che vi invito a vedere da un altro dispositivo mentre
leggete le mie parole per potervi immedesimare totalmente nel mio scritto, osservando contestualmente tutto quello che lui fa sul palco.
Iniziamo dal suo porsi vicino a James Burton e John Wilkinson, i suoi chitarristi. Elvis appoggia il piede sopra il palchetto su cui sono piazzati i suoi musicisti. James Burton poco prima, è udibile nitidamente, sembra
quasi provare le prime note per poi attaccarle non appena Elvis appoggia il piede sinistro sul palco.
Elvis alza la testa, allontana il microfono da sé alla giusta distanza e parte la magia delle prime note, si entra subito in una dimensione totalmente nuova, oserei dire quasi mistica, è quel brivido che senti lungo la
schiena quando l’uomo di Memphis inizia a cantare per poi lasciare spazio a J.D Sumner e gli Stamps con il proverbiale “sing it Fellows” (cantatela ragazzi) , sembra consegnare loro il microfono con quel gesto di
riverenza al secondo 34, le sue mani appoggiate ai fianchi quasi a supportare il cinturone mentre li osserva con un sorriso fra il compiaciuto e l’estasiato (39”).
Elvis riprende il timone vocale della trilogia di Mickey Newbury con un impercettibile cenno di intesa verso il suo gruppo, prende il centro del palco ed intona la seconda parte per poi entrare totalmente in medias
res con “Glory Glory Glory Halleluiah”, con quell’incredibile triplice mossa (quante volte da ragazzo ho cercato di imitarla!!!) al 1’34” in tre passaggi per poi caricarsi col pugno dall’alto verso il basso.
Questo gesto si ripeterà più tardi in maniera opposta. Elvis è totalmente in controllo della situazione, un triplo cenno con la testa ed uno sguardo fisso in camera ad autoconvincersi di quanto fosse immerso nella parte, quasi ad entrare negli occhi di ognuno di noi, sembra di averlo davanti, di viverlo. E’ il lasso di tempo che va dal 2’08” al 2’16”. Mai visto più nulla di simile.
“So hush little baby don’t you cry you know your daddy’s bound to die, but all my trials Lord will soon be over”
Osservate bene il livello di concentrazione massima con cui Elvis tira fuori quello che ha dentro in questo passaggio. Il tutto è in diretta in mondovisione, non scordiamocelo. E’ qualcosa di non umano, perché
sembra un angelo che canta con una purezza vocale impensabile. Sono circa ventotto secondi, dal 2’17” al 2’54” di estasi presleiana assoluta, ma non è ancora la fine, “the best has yet to come” direbbero gli anglosassoni, fermatevi a vedere il suo sguardo, mettendo in pausa, al 2’54”, ditemi se avete mai visto un’intensità simile in una performance dal vivo.
Parte l’assolo di flauto, sono secondi che a me, da sempre (parlo dal 1990, anno in cui ho iniziato ad ascoltare Elvis Presley) fanno venire i brividi, non so come mai, non sono americano, non sono cresciuto con il Gospel, ma dentro me sento come se vivessi appieno quell’emozione che solo Elvis Presley può regalare.
In posizione eretta a centro palco rivolto verso la sua band e l’orchestra di Joe Guercio raggiungiamo il finale che è qualcosa di trascendentale, talmente epico e sontuoso che credetemi, faccio veramente fatica
a descriverlo a parole perché sembra irreale.
Eppure è realmente accaduto.
Minuto 3 e 15 secondi. Osservate lo sguardo dell’uomo Presley verso tutti i suoi uomini. E’ il comandante che conduce la sua nave verso il porto della vittoria, la missione è quasi compiuta, il sogno americano realizzato nella sua più totale solennità davanti a tutto il mondo.
Il suono dei trombettisti fa salire la tensione emotiva a livelli di adrenalina oltre questa dimensione.
Pensate solo a chi ha avuto modo di assistere dal vivo a quello spettacolo sul posto. Credo che abbia visto qualcosa di non immaginabile, ultraterreno per certi aspetti. Elvis incita costantemente tutti con delle grida perentorie, e quell’insuperabile momento presleiano in cui gli cade una goccia di sudore, copioso, dalla fronte e trova pure il tempo per essere ironico soffiandosi sul ciuffo, per prendersi il mondo in mano, cantando al cielo l’amore per la sua patria e verso Dio, alzando il pugno caricando se stesso e tutti quanti
verso l’apoteosi, al minuto 3’38”.
E’ il finale, il gran finale. Avrò visto questo filmato 583482928228 di volte e credetemi, forse ho esagerato per difetto. “Glory Glory Halleluiah, his truth is marching on, his truth is marching oooooonnnn”
E’ tripudio, Elvis è insuperabile, si prende tutto, il suo pubblico di quella sera e quello televisivo in diretta e in registrata tre mesi dopo registrando il record d’ascolto per la tv americana. Quella nota finale e la chiusura del brano alla sua maniera conclude quattro minuti e poco più di insuperabile passione presleiana, con Elvis che forse non è mai stato più su di cosi’.
Da anni scrivo dei “momenti presleiani”. Questo è forse il più toccante ed emozionante. Chi vi scrive, quando vede questo video, si commuove ma si carica al tempo stesso come faceva lui per se stesso e tutto il suo gruppo attorno. In questi giorni lo sto rivedendo studiandolo come non mai, ma non per scrivere questo articolo, sarebbe troppo semplice. No. Lo faccio perché mi cattura in ogni suo istante, il suo canto cosi appassionato apre le porte della mia anima e credo anche quella di ciascuno di noi.
Come forse non tutti sanno ( è giusto anche fornire informazioni a chi si sta avvicinando ad amare Elvis, e sono tanti, molti più di quelli che possiamo immaginare) Elvis Presley tenne due sere prima uno show di prova col pubblico presente in sala. Era una specie di “backup”, come diremmo nel linguaggio corrente, che sarebbe andato in onda nel caso in cui la diretta via satellite avesse avuto dei problemi tecnici.
Ebbene se vedete la performance di An American Trilogy di due giorni prima sentirete le medesime emozioni perché dal punto di vista vocale siamo sullo stesso livello di eccellenza assoluta. Oserei dire pari
merito ex equo.
Cambia altresi, come ovvio, la gestualità di Elvis in alcuni passaggi, che per puro spirito di passione senza voler cadere nel didascalico, vi riporto fedelmente.
L’inizio è leggermente diverso, con Elvis che appoggia il suo braccio al ginocchio aspettando l’intro di James
Burton.
Elvis poi si rivolge al solito agli Stamps questa volta mettendosi le braccia dietro la schiena. Quest’immagine è nota agli appassionati di Elvis perché usata come copertina del cd singolo usato in commemorazione delle
vittime dell’11 settembre. Pura iconografia presleiana.
La triplice mossa sopraccitata dallo show del 14 gennaio viene enfatizzata da un grido di puro auto incitamento “yeah baby” a caricare a molla tutto ciò che lo circondava, oltre se stesso. Era lo show di prova, ed Elvis, malgrado qualche imperfezione qua e là dovuta sicuramente all’emozione (vedi Burning Love , Steamroller Blues e Welcome To My World, ma si parlava di sottigliezze in un contesto di semi perfezione!), ci teneva comunque a dare il 110% di se stesso.
L’assolo di flauto che precede il sontuoso “glory glory halleluiah”, magico e commovente, presenta un’impercettibile stonatura ma non ha nessuna importanza perché due giorni dopo sarà perfetta. Ed
esattamente come due sere dopo, Elvis carica la sua truppa alla sua maniera, incita tutti, carica un pugno
ma non verso l’alto, è inquadrato frontalmente questa volta e si vede la sua massima concentrazione nel
finale epico, non meno strepitoso di due sere dopo, per poi ringraziare il pubblico alla sua maniera.
Non ho altro da aggiungere. Dico solo che tutto questo è realmente accaduto e l’uomo che avete visto è realmente esistito ed ha fatto emozionare, innamorare e sognare milioni di persone in tutto il mondo con la sua voce.
Continua a farlo ancor oggi e chi vi scrive ne è un suo umile quanto fiero decantatore di gesta.
Viva Elvis sempre amici.