BIG BOSS MAN The Magic Inside The ELVIS Show
di Marco Lofino
Tutti coloro che ascoltano con frequenza l’Elvis degli anni settanta, e nello specifico le registrazioni dal vivo, si saranno accorti di tutto quel bagaglio di particolarità e curiosità, oltre all’indiscutibile qualità del prodotto offerto dal nostro idolo, che rende il concerto di Elvis unico ed originale anche al di là delle canzoni eseguite.
Elvis non interagiva sul palco solo con il suo pubblico, ma anche con la sua band, e questo avveniva spessissimo anche in quei momenti detti “tempi morti”, ovvero fra l’esecuzione di un brano e l’altro. Nei primissimi anni dal ritorno sulle scene, Elvis era solito ridurre al minimo questi spazi cercando di dare al suo show il massimo del ritmo, come era solito dire lui, voleva dare “tiro”. Negli ultimi anni, per svariati motivi legati anche all’imprevedibilità stessa di Elvis, e forse anche alla sopraggiunta esigenza di tirare il fiato, poteva capitare spesso di sentirlo interagire con Charlie Hodge sul tema principale per cui erano sul palco, ovvero la scaletta dei brani da eseguire.
A mente ricordo alcuni episodi, uno dei piu eclatanti è quello di Huntsville, nel 1975, in cui Elvis ridendoci su (ma forse neanche troppo visto che ha sempre fatto fatica a ricordarsi le parole di quel brano) chiede supporto ad Estelle Brown delle Sweet Inspirations per ricordarsi le parole di Burning Love. Improvvisamente decide di cambiare “I don’t wanna do it anymore let’s do Polk Salad Annie”. Straordinario momento di genialità presleiana, nel suo confermare una certa avversione verso quel brano, “Burning Love” che comunque lo riportò in vetta alle classifiche di vendita. Non proprio un dettaglio, quindi.
Come non ricordare poi, nel consolidarsi degli spettacoli negli ultimi periodi, quando Charlie Hodge, durante lo show di Omaha del 1977 (il primo filmato per lo special Elvis In Concert), si sente nitidamente rivolgersi ad Elvis in questi termini “Fairytale or If You Love Me” come da prassi ormai consolidata per la “tracklisting” di quel periodo. Tutto questo come a fare da contorno al pezzo forte dello spettacolo, al piatto prelibato che era Elvis nel suo interagire con il pubblico, ma anche e soprattutto con la band.
Su quest’ultimo aspetto vorrei soffermarmi, perché anche questi che sembrano dettagli di per sé insignificanti lo distinguono da altri artisti e lo rendono, semmai ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, unico.
Capita spesso di ascoltare Elvis che sul palco quasi prova davanti al pubblico… Attenzione, questo non significa che si trovasse “impreparato”, anzi, era la sua assoluta ricerca della perfezione che spesso lo portava ad interrompere i brani per poi riprenderli, in quelle che sono unanimemente riconosciute come le “false starts” di cui abbiamo tante prove, mi si perdoni il gioco di parole, in svariate esibizioni live.
Prove sul palco, comunicazione sul palco con la band, quella TCB band che gli è stata vicino fino alla fine in quasi tutta la sua totale interezza, eccezion fatta per Glen Hardin che lasciò all’inizio del 1976, e Jerry Scheff che si prese due anni di “stacco” per tornare nella primavera del 1975, ritrovando uno spettacolo diverso, soprattutto un ritmo diverso. Mi piace ricordare quando nel 2005 ebbi la fortuna ed il privilegio di intervistarlo, e lui, a mia domanda diretta, rispose: “Quando tornai, avevo in testa il ritmo degli spettacoli che avevo lasciato. Dopo poche note, durante una prova, mi guardarono strano e mi dissero: cosa stai facendo?… Mi accorsi subito che il ritmo era nettamente rallentato”. In quei due anni di separazione fra il virtuoso basso di Jerry Scheff (per quei pochi che non lo sapessero collaborò anche coi Doors, in L.A Woman il basso è il suo) ed Elvis ci furono più di centocinquanta show con Duke Bardwell, bassista, ed in origine chitarrista, arrivato su suggerimento di Ronnie Tutt. Un amore, come sappiamo, mai sbocciato fra i due. Lo stile di Bardwell è decisamente differente da quello di Scheff, (a me non dispiace pur non essendo ovviamente paragonabile a quello del canadese) e qualche volta Elvis non perse occasione per evidenziare il suo disagio in merito. Quando iniziò ad apprezzare le gesta del bassista di Baton Rouge, Louisiana, Jerry Scheff era ormai pronto a tornare…
L’interagire di Elvis con la band spesso si manifestava non solo nelle solite battute che tutti conosciamo, ma anche in segnali chiari con cui chiedeva massima attenzione e perfezione ai suoi collaboratori. Mi viene a mente la versione di “Never Been To Spain” dal concerto di Greensboro del 1972 (per intenderci uno di quelli filmati per “Elvis On Tour”, da cui vediamo ed ascoltiamo una bellissima versione di “Bridge Over Troubled Water”), in cui chiaramente qualcosa nel finale non va per il verso giusto, ed Elvis si rivolge alla band testualmente: “We’ll get the ending right…one day” (trad. “Lo faremo bene il finale… un giorno”). Ma erano episodi sporadici, chiaramente dettati dalla voglia di Elvis di essere sempre perfetto davanti al suo pubblico, e questa sua esigenza nessuno meglio della TCB band poteva soddisfarla, e di questo lui stesso ne era pienamente consapevole.
“Never Been To Spain”, indiscutibilmente uno dei pezzi più riusciti dell’Elvis “live” degli anni settanta, spesso introdotto da quella nota iniziale in cui il vero appassionato subito capisce, pur sapendolo già di suo, che James Burton sta dando il là ad Elvis per attaccare il brano. Sono questi piccoli dettagli che creano un’emozione, quell’emozione che chi ama Elvis conosce a memoria, e ama riviverla ogni volta come se fosse la prima volta, come un’onda da cui ti lasci travolgere, costantemente. Quella nota di James Burton, anche prima di altri brani, (in particolare “Hound Dog”, ma ce ne sono tanti altri, potremmo stare qua per ore), la rende unica perché trasmette l’idea di quel feeling che si creava fra di loro, quell’elettricità (in particolare in quello specifico momento, dopo “Proud Mary”, nello show serale del Madison Square Garden) che solo la magia di Elvis è in grado di regalare e di cui chi scrive non riesce, e soprattutto non vuole farne a meno. E credo un po’ tutti noi.